Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell'Inquisizione (1583-1599). A cura di Andrea Del Col, Pordenone, Ed. Biblioteca dell'Immagine 1990 (Il Soggetto & la Scienza 8), pp. CXXXIII-263.

La vicenda ereticale di Domenico Scandella, detto con soprannome a metà tra il confidenziale ed il diabolico Menocchio, probabilmente sarebbe rimasta nota solo a pochi specialisti se non fosse caduta tra le mani di Carlo Ginzburg. E forse non sarebbe neppure bastato, se il libretto che ne trasse Ginzburg - pur con l'accattivante titolo de Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 - non fosse stato edito nel 1976 da Einaudi. Con la maestria che gli è propria lo storico bolognese (per sede di lavoro) lanciò il mugnaio friulano nell'agone della storia dei professionisti, e degli amatori, nonché in quello ben più vasto degli studenti universitari, soprattutto come saggio di paragone dei rapporti - spesso altrimenti velleitari - di cultura dotta e popolare. E per quattro-cinque anni non mancarono discussioni di più o meno eminenti studiosi che inalberando il vessillo Menocchio si agitarono sulle scene più o meno illustri della nostra ribalta storiografica.

Ora questo nuovo libro su Menocchio, dal tono dimesso, ma dall'architettura solidissima, di un rigore sorvegliato e preciso, riapre non tanto per l'edizione degli atti relativi, del resto indispensabile com'è ovvio, quanto per la succosa Introduzione ogni possibilità di riflessione in merito, e ci auguriamo analoga messe di riflessioni da parte di altri cultori della materia.

Perché, senza mai dirlo esplicitamente, l'A. sostiene che Ginzburg, e quanti l'hanno seguito, in realtà si sono esercitati su di un terreno improprio, ed hanno profuso energie ed erudizione su di un falso, per non dire inesistente bersaglio. Ci limiteremo qui naturalmente al punto di vista del medievista.

Oltre a restituire per quanto possibile la cornice documentaria della vicenda (il paese d'origine, gli abitanti, il clima culturale campagnolo e regionale), lavoro che senza alcun sospetto di negatività definiremmo di routine, l'A. ci dà nel paragrafo 6 dedicato a "Le idee del Menocchio: dipendenze catare", il suo contributo più originale, centrato ed illuminante alla comprensione della intera vicenda, non per quanto riguarda l'azione inquisitoriale, naturalmente, quanto piuttosto per la genesi delle 'idee' dell'atipico eretico friulano.

Ma quanto atipico? Solo se indagini come questa si replicheranno potremo dire con una certa precisione quanto di anomalo ci sia in un mugnaio che ripete concetti tipici di duecento anni prima. Perché impensabile sostenere che tali concetti si siano mantenuti negli anni e nei luoghi per giungere come un tesoro fondamentalmente incorrotto nelle mani del solo Menocchio. Ed infatti è questa una delle conclusioni delle riflessioni introduttive: se la letteratura sul tema 'persistenza del catarismo dal Due al Cinquecento' non enumera oggi un solo titolo, e se non è detto che molte vicende ereticali possano essere rivisitate, riguardate 'con altri occhi'; almeno qualche via percorribile sembra si possa legittimamente ipotizzare (p. LXX).

Prendiamo quelle idee dell'eretico che 'si richiamano al patrimonio comune della Riforma': 'la negazione della verginità della Madonna, il rifiuto delle cerimonie, delle immagini sacre, degli obblighi quaresimali come invenzioni umane, la inutilità del purgatorio, le critiche al papa, prelati e preti, il superamento dei confini tradizionali del sacro riguardanti luoghi, oggetti tempi' (pp. XLVI-XLVII). Sono 'tipici' del tempo della Riforma, certo, ma solo di allora? Non c'è eresiologo del catarismo che non potrebbe tranquillamente identificare una somma di queste idee come 'tipiche' di un eretico duecentesco!

Le finissime analisi sui libri e più sulle 'letture' (certe, probabili, possibili) del Menocchio condotte da Ginzburg ('senza dubbio la parte più affascinante della ricerca', a detta dell'A., p. XLVIII) finiscono col non convincere, 'non bastano a spiegare il complesso delle sue concezioni, che risalgono ad una cultura tramandata oralmente e fanno ipotizzare uno strato di credenze vecchio di secoli' (p. L).

Giustissima la premessa:'Va detto molto chiaramente che sarebbe preferibile parlare di catarismi, più che di catarismo, per le distinzioni e divergenze che ci furono sia dottrinalmente che disciplinarmente tra le varie Chiese catare' (p. LIV). Nessun eresiologo medievista è ancora arrivato esplicitamente a questa del resto lampante conclusione. Solo Merlo ha scritto recentemente oltre che di 'valdesi' anche di 'valdismi' (G. G. Merlo Valdesi e Valdismi medievali. Itinerari e proposte di ricerca Torino, Claudiana 1984), ma forse era preferibile parlare ormai coraggiosamente solo dei secondi. Fatta quella premessa, ecco allora le dottrine di ascendenza catara: Menocchio dice che 'morto il corpo, more anco l'anima' (p. 51); medesima dottrina rintraccia l'A. nel tardo catarismo piemontese, ma si potrebbe richiamare, forse con maggiore congruità il caso di Giovanni di Matro da Verona, condannato postumo nel 1325: se Menocchio sostiene 'che come semo morti, non semo più niente, ma siamo come vermi et come le bestie' (ibid.), Giovanni di Matro aveva sostenuto 'quod homines, quando moriuntur, moriuntur sicut bestie' (P. Marangon Il pensiero ereticale nella Marca Trevigiana e a Venezia dal 1200 al 1350 Abano Terme 1984, p. 33). La negazione della resurrezione dei corpi, dell'esistenza del purgatorio e dell'inferno erano pure comuni, anche se non generalizzate, tra i catari: l'appena ricordato Giovanni di Matro veniva condannato anche perché diceva che moriamo come le bestie, 'que non habent infernum nec paradisum' (ibid.). Si impone immediatamente a questo punto una riflessione: se dunque il quadro complessivo dell'eresia di Menocchio è da ricondurre alla persistenza, per vie probabilmente non più rintracciabili, della triste 'eresia del male', non hanno più ragione di essere le constatazioni di contraddizioni, stramberie e varii ed inspiegabili eccessi riscontrati da Ginzburg nella concezione ereticale dello Scandella. Astrusità giudicate tali perché irriscontrabili nelle letture di Menocchio; ma questo è giusto un punto centrale della questione. Proprio questa durata straordinaria di certe idee, impensabile se non avessimo i resoconti inquisitoriali degli atti contro Menocchio, dimostra almeno due cose: primo che non era affatto necessaria l'invenzione della stampa e l'avvento della Riforma perché un mugnaio pensasse di dire la sua su Dio e il mondo, come già aveva notato a suo tempo Merlo (G. G. Merlo Eretici e inquisitori nella società piemontese del trecento Torino 1977, p. 60) - eppure nessuno, mi pare, eccetto il sottoscritto (G. Zanella L'eresia catara fra XIII e XIV secolo: in margine al disagio di una storiografia "Bull. Ist. st. it. per il M. E." 88 (1979), p. 250), lo aveva affiancato -; secondo che 'l'eresia del male' non aveva assolutamente bisogno di quella ferrea struttura gerarchica che le si è voluta attribuire per propagarsi (distrutta la quale, ad opera dell'Inquisizione, si spiegava naturalmente la fine dell'eresia...) e persistere. Come ormai sappiamo per cento vie la circolazione delle idee, soprattutto nel basso Medioevo, fu vivacissima, perfino se noi non siamo in grado di ricostruirne i tramiti...

Il riscontro non si esaurisce sicuramente qui: l'eterna lotta tra spirito del male e spirito del bene Menocchio sente perfino dentro di sé, 'in senso reale, non mistico' (p. LIX). Che Abele, Noé, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, Giovanni Battista fossero strumenti divini per 'l'eresiarca' Menocchio, corrisponde quasi perfettamente a quanto insegnato da Giovanni di Lugio, con l'omissione di Giosué e l'aggiunta d'Abele, il quale ultimo però si ritrova come inviato divino nella Summa contra haereticos di Giacomo de Capellis, e che, comunque, Menocchio trovava raffigurato nella chiesa di Montereale; quella stessa chiesa che tante volte aveva frequentato. Che Cristo sia morto veramente è impensabile per il mugnaio friulano del Cinquecento come lo era stato per i catari del Duecento. Che per raggiungere la salvezza sia necessario compiere le opere di Dio ed evitare quelle del maligno è tratto caratteristico degli 'eretici quotidiani' (G. Zanella Armanno Pungilupo, eretico quotidiano "Atti Accad. Scienze Bologna, Cl. di sc. morali, Rendiconti" 66 (1977-78), pp. 153-64). 'Quale sono questo opere de Dio?', chiede l'inquisitore, e lo Scandella: 'Amarlo, adorarlo, santificarlo, riverirlo et ringratiarlo et poi bisogna che sia caritatevole, misericordioso, pacifico, amorevole, honorevole, obedientissimo a' suoi mazzori, perdonar le inzurie et attender le impromesse et questo facendo, si va nel cielo et questo basta per andar là' (p. 76). Se può apparire veramente straordinaria la persistenza di queste idee, non ci si dovrà invece affatto stupire se non tutto è ripetuto pedissequamente. Ad esempio è scomparsa la proibizione del coito e dei cibi carnei, del resto riferita in passato ai soli perfetti, ed anche fra questi con non rare ecczioni; del resto non mancano affermazioni di puro buon senso: "Interrogatus respondit:'Signor <sì> che credeva che il magnar ovi, latte et formazo di quaresima non fusse peccato, purché essendo in loco che non si possi haver altro'' (p. 63). Del resto il rifiuto degli uomini di Chiesa perché si tratta di gente che fa 'mercantie et si viva sopra di questo' (p. 64) si può facilmente riavvicinare a simili credenze di quei catari che consideravano soprattutto i frati 'lupi rapaci', pronti a protendere le mani sui beni dei sospetti d'eresia; credenze talmente diffuse da suscitare in passato vere e proprie rivolte popolari, com'è notissimo. Così il rifiuto dei sacramenti è tratto comune del catarismo.

Quello che pensa Menocchio dell'eucarestia, della messa, delle indulgenze, del libero arbitrio non risalgono certo al catarismo, ma se anzi 'sono in contraddizione... con le idee catare originarie' risultano però anche estranee a 'quelle della Riforma e non hanno niente in comune con la teologia cattolica' (p. LXI). La Bibbia è in parte creazione diabolica, crede Menocchio; non diversamente i vecchi catari. Ma sembra tipico dell'eretico friulano, di fronte a bizarri voli cosmogonici, un più normale senso comune: "Non vedo lì altro che un pezzo di pasta", dice a proposito dell'eucarestia (p. 30) - e come non ricordare quel luogo comune ricorrente tra gli eretici del Duecento, di uguale matrice, per cui anche se il 'pane' fosse stato grande come una montagna ormai lo si sarebbe già consumato da tempo (G. Zanella Itinerari ereticali: patari e catari tra Rimini e Verona Roma 1986, p. 26) -; l'intervento umano nella Bibbia è evidente per il fatto che gli evangelisti si contraddicono vicendevolmente (p. 65). Insomma anche le Scritture sono uno strumento nelle mani dei preti per dominare (ibid.). Menocchio ritiene che tutte le fedi siano ugualmente buone? Ecco un preciso riscontro con la Bologna ereticale della fine del Duecento (p. LXII). Estraneo a Menocchio rimane invece quanto sostenuto da un altro eretico friulano, accusato nel 1580 di aver sostenuto 'quod omnes salvantur, Iudei scilicet, Turcae, christiani et infideles omnes, quia Christus mortuus est pro omnibus'; un'idea più vicina al terreno proprio della Riforma (p. CXV-XVI nota 131): ma lo Scandella - come i catari - negava la realtà della passione di Cristo (p. 185)! Per lui tutte le fedi sono buone perché il comandamento di Cristo 'che rispose a quelli giudei che li dimandavano che legge si dovesse haver et lui rispose: 'Amar Iddio et amar il prossimo'' vale per tutti, non conosce confini: "La maestà de Dio ha dato il Spirito Santo a tutti: a christiani, a heretici, a turchi, a giudei et li ha tutti cari et tutti si salvano a uno modo' (p. 64).

Di particolare rilevanza la riflessione svolta dall'A. sulla necessità metodologica di sfuggire alla morsa degli atti inquisitoriali. L'inquisitore giudica in base a quanto sa (secondo i manuali, ho sostenuto io a più riprese), classifica e condanna. Guai allo storico che lo segue cieco, anzi con l'occhio ancor più teso ad avvalorare il suo percorso. "Lo storico, se prende come parametro soltanto le due sentenze, finirà quasi inevitabilmente con l'attribuire al Menocchio idee protestanti, anabattiste e antitrinitarie. Se invece tiene presente i verbali, troverà delle linee dottrinali catare con alcune modifiche profonde" (p. LXXI). Qui vorremmo mettere in guardia l'A.: non si deve naturalmente credere che i verbali in sé siano lo specchio fedele non dico delle idee dell'eretico, ma neppure del reale svolgimento dell'interrogatorio. Il verbale, resoconto, dossier informativo su di un accusato, comunque, in tutti i tempi e luoghi, obbedisce ad un formulario alla cultura di chi è preposto alla sua estensione, verrà comunque confezionato ad arte; perfino vorrei dire che le orecchie sono naturalmente portate a sentire quello che ci si aspetta di sentire, anche se non si risponde proprio quello che l'interrogante si attende. Non c'è una via facile; allo storico dell'eresia è richiesta sensibilità estrema, ferrea conoscenza dottrinale dei temi ereticali; ma anche nessun pregiudizio ed una totale disponibilità a cogliere quanto la documentazione offre. Il mugnaio friulano non capisce quando l'inquisitore gli chiede della dottrina della giustificazione per fede o della predestinazione (p. LXIII), così come gli eretici duecenteschi non capiscono l'inquisitore che chiede a che setta appartengano. Ma non si creda che nell'inquisitore sia malafede, inaccettabiiltà di quel che può esserci di altro, diverso dal suo modo di pensare, né che l'inquisitore ha la sola esigenza di condannare (p. LXXI). L'inquisitore non può fare invece diversamente; come ho già detto altrove è l'"assoluto bisogno degli uomini di chiesa preposti a combattere l'eresia di vedere il fatto ereticale in termini istituzionali" (Zanella Itinerari p. 44); altrimenti risulterebbe incomprensibile, inconoscibile. Ma al contrario molti dei nostri eretici sono per natura refrattari ad istituzionalizzarsi. Ed allora? Dovremmo dimenticarli, perché 'contarono' poco? "Le dottrine che si istituzionalizzano hanno storicamente maggior peso, ma anche quelle marginali ed emarginate interessano lo storico, perché rispondono, pur con minor fortuna delle altre, ad esigenze e domande della vita degli uomini' (p. LXXI).

Con tutto questo "Si ripropone quindi in altri termini il problema dei rapporti tra cultura popolare e cultura dotta: le concezioni espresse dal Menocchio in quanta parte sono uno sviluppo e una trasformazione di credenze avvenuti negli strati subalterni della società, in quanta parte sono prestiti mutuati dall'alta cultura?" (p. LXXIII).

Auguriamo a questo lavoro fortuna almeno pari a quella del libro di Ginzburg.